Tuesday, October 10, 2006

UN RICORDO DEL MIO AMICO PIERO BIGONGIARI GRANDE POETA TOSCANO
Piero Bigongiari è nato a Navacchio (Pisa) nel 1914 ed è morto a Firenze nel 1997. Per decenni ha vissuto a Firenze, in una bella casa sull’Arno. Ha insegnato letteratura Italiana all’Università di Firenze. Ha partecipato, negli anni trenta, al movimento letterario, l’ermetismo, che tanta parte ebbe nel rinnovamento della letteratura di quegli anni. Iniziò la sua attività collaborando alle riviste “Campo di Marte”, “Prospettive”, “Letteratura”. Ha fatto parte della redazione di “Paragone”. La sua opera poetica è racchiusa nei volumi: “La figlia di Babilonia” (1942), “Rogo (1952), “Il corvo bianco” (1955), “Le mura di Pistoia” (1958), “Torre di Arnolfo” (1964), “Antimateria” (1972), “Moses” (1979), “Col dito in terra” (1986), “Nel delta del poema” (1989), “La legge e la leggenda” (1992). Ha scritto diversi volumi di saggi sulla poesia italiana del Novecento, sulla poesia francese del Novecento, sulla funzione simbolica del linguaggio poetico, su Leopardi, sull’arte (dal barocco all’informale), su Giorgio Moranti, sul pittore americano Pollok.
Il critico Stefano Crespi, parlando di Bigongiari in un convegno, ha detto che la sua poesia è difficile e complessa; è conosciuta, ma non è letta. Non è, ad esempio, nell’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo. Perché? Una risposta potrebbe essere questa: non entra nella tradizione poetica italiana. La tradizione privilegia il canzoniere, cioè alcuni temi, pochi. Non è così per Bigongiari; egli ha una concezione della poesia che tende al “poemaromanzo”; in lui sono ugualmente fondativi sia lo specifico della poesia, sia i libri di critica e di estetica. La sua critica ha bagliori di poesia. L’opera di Bigongiari esige una certa frequentazione. Una delle chiavi è la metafora del viaggio; ma se nella tradizione, in Omero, in Virgilio, in Dante, nei poeti romantici, il viaggio indica una meta, un senso finale, profetico, ha un progetto, una storia, in Bigongiari è senza meta, la cronologia è rovesciata, non esiste il tempo progressivo; per il poeta il tempo è reversibile, è vissuto in prima istanza nella scrittura. Questo viaggio non è un’esperienza in parallelo, la poesia non deve riflettere un contenuto; la soluzione è nella ricerca. Come si può giudicare la vita se essa nasce nel mistero e nel mistero sparisce? Non vi sono punti di riferimento, lo storicismo, l’idealismo, le avanguardie. Abbandonato l’essenzialismo lirico della stagione ermetica, la scrittura di Bigongiari si fa volutamente inessenziale; è una dismisura, è la parola che diventa voce, ignoto, avventura, metamorfosi, di un viaggio po’ematico che non accetta la fine; è un “vortice” che dal presente fluisce a ritroso a trovare il suo punto di origine. La parola vuole cogliere l’eternità e l’intemporalità dell’essere, insieme alla forza e alla precarietà dell’esistere. Il dolore, il pianto sono irrelati; il viaggio è il luogo continuo delle antitesi: tempo-eternità, parola-cosa, memoria-oblio, vita-morte, essenza-esistenza, acqua-fuoco, luce-ombra, si articolano come due facce di una profonda unità, di una misteriosa realtà. Piero Bigongiari, pur molto amico di Mario Luzi, è profondamente diverso; possiamo cogliere la differenza in queste locuzioni: Bigongiari: “Anche irriconoscibile a me stesso, ma fedele all’ignoto”; Luzi: “Vita, fedele alla vita”. Il mito del labirinto appare spesso nelle ultime opere. La scrittura è una traccia, un graffito, un filo attorno e aggrovigliato che permetterà al poeta di uscire dal labirinto, dal caos del magma; è una materia informale. L’andamento è meditativo, fluente, molteplice, inarrestabile: una non mai esausta erranza.
Ricorrono spesso le parole mare, fiume, uccelli (amato gabbiano), roccia, pietra; il linguaggio è fortemente metaforico. Poesia sulla poesia. Bigongiari ha bisogno di scrivere per esistere. “Solare la parola porta ombra / sonno riposo acquiescenza: rocce / repentine parlano profonde….”. L’esperienza surrealista è perfettamente assimilata: “ed ecco apparvero erinni dai seni di pietra”; l’immaginazione è inesauribile.
Piero Bigongiari ha viaggiato molto: Stati Uniti, Francia, Egitto, Austria, ecc. Il suo diventa un viaggio doppio; non smette di scrivere; si direbbe che l’apertura al reale accresca la spinta all’altro viaggio, nell’inconscio, “nel fondo melmoso”.
Gli ascendenti di Bigongiari possiamo individuarli, principalmente, nei poeti metafisici inglesi, Leopardi, Eliot, Pound, Valery, passando per Baudelaire, Rimbaud, Mallarmè, i surrealisti. Ma la loro lezione rimane nello sfondo, diviene sapienza e padronanza di linguaggio. Bigongiari va oltre, inscrive sui materiali la sua cifra originale, vi accende il suo cammino pulsionale tra vibrazioni, scoppi, voli, cadute. “Non so se ho costruito con la roccia / una sorgente o con l’acqua del mare / ho scavato il deserto che mi inoltra / fino a te che non mi puoi dissetare”. “Mia roccia / tu spiccia quanto Iddio ne ha sottratto”. Il poeta ha sete di sapere: “il visibile è il reale, l’invisibile è la verità”. La poesia è il continuo tentativo di allargare il reale, attraverso il suo segno grafico e semantico.Ma è una ricerca mai appagata. La vita, l’arte è “una carne bianchissima” che fiorisce nel deserto, ma è anche un pianto oscuro che ricama lo “scialle dell’amore”. Si sente il sottofondo del pensiero leopardiano, sviluppato e scarnificato fino a provocare il corto circuito (“si accende la luce, ma non un altro paradiso”).
Il pensiero della morte ritorna insistente, così come quello di Dio. “Il cricchio orrendo della morte cammina su questa velina”. “Propongono i caprifoglio lungo un fiume la morte riflessiva per acqua”. “La morte non separa che l’inseparabile, ma questo / così fragile dirsi addio possibile che a quel Dio / nascosto da se stesso non dica niente”.
La poesia è esistenza espressa, si condensa in dolore, angoscia della morte, sangue, pianto, perché al suo posto appaia l’invisibile, la verità.
Antonio Carollo

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