Dalla Sicilia
Nota.
Da quasi un mese ho disertato il mio blog e i Website con cui collaboro. Devo qualche spiegazione ai lettori. C'è qualche ragione. Sono in villeggiatura in Sicilia; le mie giornate sono completamente cambiate. L'impatto, dopo due anni, con i miei luoghi natii non è stato da poco. Oltre al turbinio degli incontri con parenti e amici (qualcuno venuto dalla California), c'è da aggiungere la bassa tensione, per il computer, della corrente elettrica e la mancanza in casa di una linea telefonica. Adesso sembra che, almeno di mattina, possa riprendere il mio lavoro di scrittura. Effettuerò le trasmissioni attraverso un Internet point che spero di trovare a Trabia o a Termini Imerese. Conto di portare a termine “Una giornata al Cozzo Corvo” e di scrivere qualche altra cosa.
Appunti da un posto di villeggiatura
Il mare è caldo e trasparente. Faccio il bagno sulla spiaggia che mi vide bambino. In queste acque si bagnarono i miei nonni e i genitori. Se alzo lo sguardo vedo sullo sfondo ad est la maestosa sagoma del Monte San Calogero; la linea del suo profilo nasce dalle acque di Bonfornello (la greca Imera riconoscibile dagli interessanti scavi archeologici), sale decisa, con brevi tregue, verso la larga cima, divisa da una scriminatura, per scendere dolcemente fino alle alture di Caccamo. La perfezione del disegno è assoluta. Il corpo possente alla base e via via leggero e gentile del San Calogero è visibile dalle spiagge, dalla pianura e dalle colline di Trabia e San Nicola, dai monti di Pizzo Cane e di Pizzo Trigna, ma anche dai territori di Altavilla Milicia, Casteldaccia e Bagheria. Superato il lieve pendio autostradale che da Villabate porta a Bagheria la sua visione non ti abbandona più fino allo scollinamento verso Campofelice e Cefalù. Al Belvedere di Termini Imerese si mostra in tutta la sua inconfondibile e pura bellezza. I miseri tentativi dell'uomo di intaccare questa purezza sono sovrastati dalla grandiosità estetica, da vero monumento della natura, del San Calogero. Le case sparse fino ad una certa quota e gli incendi dolosi dei boschi sulle pendici non possono cancellare il lavoro di cesello dei millenni.
Fino a qualche giorno fa sono stato in compagnia di un mio amico d'infanzia, Giacomino Teresi, tornato da San Jose, California. Lo ricordo come centauro spericolato su una velocissima motocicletta Benelli e poi di una Fiat 1000 Abarth. Faceva coppia con un altro ragazzo più pazzo di lui per i motori, Mommu Curtisi. Figurarsi, erano gli anni Cinquanta; in paese esistevano solo due o tre automobili; quelle esibizioni erano una novità da brivido, suscitavano invidiosa ammirazione. Giacomino si è molto irrobustito. Le spalle sono possenti; al contrario ha poca pancia. Il volto è roseo, ma è alquanto parco con gli alcolici. Sta bene ed è capace di fare interminabili camminate durante le sue numerose peregrinazioni turistiche. L'espressione della bocca, il sorriso, ricordano immediatamente la dolcezza degli antichi anni della giovinezza. Era un ragazzo biondo, socievole e affettuoso, con gli occhi celesti, 1,71 di altezza, sui 65 chili. Ci somigliavamo. Spessissimo ci scambiavano: lui per il figlio di Ninu Carollo e me per il figlio di Florio. Da bambini, sulla polverosa Via Vaianisi, avevamo condiviso i giochi in un gruppetto di cui facevano parte anche i miei cugini Franco e Mario, Pina e Terina. A nove anni scomparve dalla circolazione: il padre lo iscrisse al Seminario Vescovile di Caltanissetta per fargli fare le scuole superiori; era il primo figlio maschio e su di lui nutriva grosse ambizioni. Non conosco i motivi dell'internamento in quell'Istituto; posso soltanto supporli. Si era nel 1943, gli americani avevano appena invaso la Sicilia; le scuole, sotto l'effetto del ciclone guerra, erano un disastro; inoltre il bambino era vivace e un po' ribelle; la disciplina lo avrebbe raddrizzato, come si suol dire. Giacomino passò tre anni d'inferno nel seminario. Nei brevi intervalli trascorsi in famiglia supplicava la mamma di non rimandarlo a Caltanissetta. Gli ultimi giorni di permanenza in casa per la povera donna erano un calvario. Il bimbo si agitava, la implorava in lacrime. Nel seminario la disciplina era implacabile. Le punizioni, anche per lievi infrazioni, rasentavano il disumano. Le ore passate in ginocchio non si contavano. Ogni momento della giornata era programmato. Gli assistenti controllavano persino il modo di giacere a letto: non si doveva dormire sul fianco sinistro perché era la parte del cuore. Patì anche il freddo e la fame. Le ristrettezze della guerra si facevano sentire. D'inverno l'enorme edificio era gelido; spesso i bambini cenavano con qualche patata o poco più. Una volta riuscì a fuggire; lo ripresero quasi subito. Nel 1945 il padre lo trasferì in un Istituto privato a Palermo ove rimase altri tre anni. Dopo qualche altro anno trascorso sempre a Palermo per la frequenza ad un liceo statale riemerse in paese in piena adolescenza. Sembrava volersi rifare, ossessivamente, con la foga e la spericolatezza, mostrate alla guida di quelle macchine, sulla dolorosa sottrazione d'infanzia subita. Economicamente se lo poteva permettere. Suo padre possedeva un cospicuo patrimonio in frutteti, oliveti e case: oltre alla sua parte di quello paterno aveva ereditato l'intero patrimonio di uno zio che aveva fatto fortuna in America e che, dopo qualche decennio, era ritornato in patria con un bel gruzzolo da investire.
Ho accompagnato Giacomino, con la moglie Lia e la deliziosa nipotina di undici anni, Bryana, a Caltanissetta in visita a quel Seminario che segnò la sua fanciullezza. Il portone era chiuso. Dal citofono una voce ci invitò a passare nel pomeriggio. A questo punto si doveva decidere se aspettare o andare a visitare la Valle dei Templi di Agrigento, seconda meta del nostro breve viaggio. Giacomino ci pensò un po'. Gli dispiaceva far soffrire la moglie in un'attesa di quattro ore con quel caldo. D'altra parte per lui ritornare al vecchio seminario era il solo scopo della gita. Erano trascorsi 64 anni ma la memoria di quei tre anni di vita nel chiuso di quel palazzo sono in lui viva. E' inutile elucubrare sul passato. Grandi filosofi dicono che esso non esiste, è il nulla, esiste solo il presente. Per essere felici bisogna vivere pienamente il presente. Sarà... Credo che pochi saggi siano in grado di raggiungere queste altezze di astrazione e di autocontrollo. Giacomino, certo, non appartiene a questa esigua schiera. In lui mi ha sempre impressionato la capacità, e il calore, di ricordare particolari anche minimi della fanciullezza e dell'adolescenza. Vive in California da 45 anni: E' passato dalla lotta per la sopravvivenza in un mondo sconosciuto all'attuale grande agiatezza. Intelligenza, costanza e coraggio, oltre ad una infinita dedizione alla propria famiglia, hanno contrassegnato la vita di quest'uomo che ancora oggi è immerso nel lavoro e parla di progetti per l'avvenire. In un certo senso invidia i figli e i nipoti: loro sono nati negli States, non hanno alcun problema, sono felici, sono americani. Egli, invece, ha lasciato il cuore in Sicilia. E' un uomo diviso. Quattro anni fa, durante un analoga gita che facemmo a Caltanissetta e ad Agrigento, mentre percorrevamo la statale verso Agrigento, lo sentii esclamare:”Ah, la mia Sicilia, perché me ne sono andato?”. Adesso non vorrebbe lasciare Caltanissetta senza aver visitato minuziosamente i luoghi del suo pezzetto di fanciullezza. Glielo leggevo negli occhi e nelle pieghe degli angoli della bocca, mentre parlava; allora iniziai un complicato discorso, rivolto principalmente a Lia, dicendo che era impossibile visitare i templi di Agrigento nelle ore più calde della giornata; tanto più che Lia soffriva terribilmente il caldo ed aveva problemi alle gambe; ad Agrigento c'era da scarpinare altrimenti non si sarebbe visto nulla; per i templi potevamo fare comodamente una gita a parte. Lia disse: “Restiamo qui”.
Con il sole a picco passammo quattro ore tra la piazza del Duomo, Corso Umberto I, le vie adiacenti (scattando foto), una rosticceria pizzeria e un caffè pasticceria. Le Chiese eran chiuse. Potevamo ammirare i monumenti nelle due piazze principali e le linee classiche del bel edificio ad angolo del municipio. Lia era tormentata dal caldo. In pizzeria non mangiò quasi nulla; non volle la pasta al forno né l'insalata di riso; si fece scaldare una pizza ma la lasciò sul piatto quasi intera. Bryana consumò solo un'arancina. Giacomino ed io mangiammo alla meglio. Al Caffè prendemmo un cannolo e un altro dolce (deliziosi) e qualche bibita. Alle sedici fummo dietro il portone del Seminario. Ci aprì un giovane sulla trentina, snello, quasi del tutto calvo, la barba di un giorno, un paio di pantaloni, una camicia e dei mocassini. Poco dopo sapemmo che era un prete. Giacomo era impaziente: in quel palazzo era racchiuso un bel tratto della sua fanciullezza. Mi consegnò la sua fotocamera dicendomi: “Fai tu le foto”. Dall'ingresso salimmo attraverso un'ampia scalinata al piano rialzato. Un largo corridoio partiva da quel punto da un lato e dall'altro. Lia si sentiva soffocare: aveva caldo. Disse che non poteva rimanere dentro, aveva bisogno di aria. Uscì e si mise ad aspettare sul marciapiede all'ombra del palazzo. Le pareti del corridoio erano zeppe di quadri antichi. Il pretino ci introdusse nella Cappella. Giacomino per tutto il tempo della visita parlò fitto fitto col prete. Gli raccontava per filo e per segno la vita trascorsa in quelle sale. Domandava di vecchi insegnanti, chiedeva informazioni sull'attuale gestione dell'Istituto. I convittori da qualche centinaio degli anni Quaranta erano ridotti a quattordici. La Cura di tanto in tanto concedeva delle sale per convegni, ritiri, incontri, manifestazioni culturali della Città. Il pretino era occupato nel pomeriggio in un lavoro d'archivio. Disponeva di uno studio immenso; la sua scrivania nei pressi di un angolo scompariva in un ambiente così grande. La Cappella, molto ampia, a forma rettangolare, mostrava un prezioso altare di marmo scolpito; ai due fianchi pannelli in legno dipinti con figure di santi, in fondo un grande organo con tutte le canne a vista, posto su un palco di legno che prendeva tutta la parete. Accostate alle pareti delle armature complete di antichi santi guerrieri. Il soffitto era affrescato con scene tratte dal Vangelo. Bryana era ammirata e stupita: curiosava dappertutto, osservava i quadri, le sculture, le incisioni; ogni tanto si avvicinava al nonno chiedendo spiegazioni, in inglese, purtroppo per me. Io ero il fotografo ufficiale: avrò scattato un centinaio di foto. Dimenticai di farne qualcuna per me con la mia macchinetta. Il pretino ci condusse nel museo. Le pareti erano occupate da grandi quadri del Sei-Settecento, opere di illustri pittori siciliani. Al piano superiore Giacomino visitò le camerate, il refettorio, le aule, le sale studio. Raccontava ogni particolare delle giornate. Il suo volto era acceso. Parlava del padre che caparbiamente l'aveva rinchiuso nell'Istituto privandolo della libertà, dei giochi, dei compagni, della felicità di vivere la sua infanzia. Non c'era astio nelle sue parole. “Mio padre commise un errore grave; per me stare in Istituto era una tortura; non mi rassegnai mai. Ma il padre, si sa, pensa sempre di fare il bene dei figli”.Se private un bambino degli affetti familiari e del mondo che lo circonda, lo ammazzate. A nulla valsero le sue lacrime disperate, quelle della madre, il babbo fu inflessibile. Togliere dalla strada il figlio, avviarlo a studi seri, prepararlo ad un futuro diverso dalla vita di campagna per il padre, che disponeva di discrete risorse economiche, era un dovere e un impegno, specie in tempi di guerra quando non funzionava niente e le scuole erano paralizzate. “Questo Istituto e quello di Palermo mi hanno tolto sei anni d'infanzia, ma non dimentico, qui c'è la mia vita”.Mi capita di dire che l'infanzia e l'adolescenza sono l'unico patrimonio dell'uomo. Credo che ciò valga anche in caso di esperienze negative. Per Giacomino la prova fu dura, ma in lui non c'è rimozione perché quella specie di carcere non ne fece una vittima. Egli riuscì a crearsi un minimo di condizioni per una vita di comunità; in questo lo aiutarono le sue doti di naturale comunicativa e l'innata disponibilità verso il prossimo. In qualche modo il carattere ne uscì rafforzato. Nelle personali vicissitudini, tra le quali spicca il forte stress dell'emigrazione in America, ha dimostrato di possedere tenacia e coraggio.
Ritrovammo Lia sul marciapiede. Per lei, parecchio in carne, vissuta in Toscana e in California, il sole e il caldo della Sicilia sono proibitivi. Su quel viale alberato aveva trovato un po' di refrigerio per una lieve brezza proveniente da nord. Giacomino con gli occhi abbracciò l'intero palazzo. Sono convinto che tornerà ancora.
Antonio Carollo
Da quasi un mese ho disertato il mio blog e i Website con cui collaboro. Devo qualche spiegazione ai lettori. C'è qualche ragione. Sono in villeggiatura in Sicilia; le mie giornate sono completamente cambiate. L'impatto, dopo due anni, con i miei luoghi natii non è stato da poco. Oltre al turbinio degli incontri con parenti e amici (qualcuno venuto dalla California), c'è da aggiungere la bassa tensione, per il computer, della corrente elettrica e la mancanza in casa di una linea telefonica. Adesso sembra che, almeno di mattina, possa riprendere il mio lavoro di scrittura. Effettuerò le trasmissioni attraverso un Internet point che spero di trovare a Trabia o a Termini Imerese. Conto di portare a termine “Una giornata al Cozzo Corvo” e di scrivere qualche altra cosa.
Appunti da un posto di villeggiatura
Il mare è caldo e trasparente. Faccio il bagno sulla spiaggia che mi vide bambino. In queste acque si bagnarono i miei nonni e i genitori. Se alzo lo sguardo vedo sullo sfondo ad est la maestosa sagoma del Monte San Calogero; la linea del suo profilo nasce dalle acque di Bonfornello (la greca Imera riconoscibile dagli interessanti scavi archeologici), sale decisa, con brevi tregue, verso la larga cima, divisa da una scriminatura, per scendere dolcemente fino alle alture di Caccamo. La perfezione del disegno è assoluta. Il corpo possente alla base e via via leggero e gentile del San Calogero è visibile dalle spiagge, dalla pianura e dalle colline di Trabia e San Nicola, dai monti di Pizzo Cane e di Pizzo Trigna, ma anche dai territori di Altavilla Milicia, Casteldaccia e Bagheria. Superato il lieve pendio autostradale che da Villabate porta a Bagheria la sua visione non ti abbandona più fino allo scollinamento verso Campofelice e Cefalù. Al Belvedere di Termini Imerese si mostra in tutta la sua inconfondibile e pura bellezza. I miseri tentativi dell'uomo di intaccare questa purezza sono sovrastati dalla grandiosità estetica, da vero monumento della natura, del San Calogero. Le case sparse fino ad una certa quota e gli incendi dolosi dei boschi sulle pendici non possono cancellare il lavoro di cesello dei millenni.
Fino a qualche giorno fa sono stato in compagnia di un mio amico d'infanzia, Giacomino Teresi, tornato da San Jose, California. Lo ricordo come centauro spericolato su una velocissima motocicletta Benelli e poi di una Fiat 1000 Abarth. Faceva coppia con un altro ragazzo più pazzo di lui per i motori, Mommu Curtisi. Figurarsi, erano gli anni Cinquanta; in paese esistevano solo due o tre automobili; quelle esibizioni erano una novità da brivido, suscitavano invidiosa ammirazione. Giacomino si è molto irrobustito. Le spalle sono possenti; al contrario ha poca pancia. Il volto è roseo, ma è alquanto parco con gli alcolici. Sta bene ed è capace di fare interminabili camminate durante le sue numerose peregrinazioni turistiche. L'espressione della bocca, il sorriso, ricordano immediatamente la dolcezza degli antichi anni della giovinezza. Era un ragazzo biondo, socievole e affettuoso, con gli occhi celesti, 1,71 di altezza, sui 65 chili. Ci somigliavamo. Spessissimo ci scambiavano: lui per il figlio di Ninu Carollo e me per il figlio di Florio. Da bambini, sulla polverosa Via Vaianisi, avevamo condiviso i giochi in un gruppetto di cui facevano parte anche i miei cugini Franco e Mario, Pina e Terina. A nove anni scomparve dalla circolazione: il padre lo iscrisse al Seminario Vescovile di Caltanissetta per fargli fare le scuole superiori; era il primo figlio maschio e su di lui nutriva grosse ambizioni. Non conosco i motivi dell'internamento in quell'Istituto; posso soltanto supporli. Si era nel 1943, gli americani avevano appena invaso la Sicilia; le scuole, sotto l'effetto del ciclone guerra, erano un disastro; inoltre il bambino era vivace e un po' ribelle; la disciplina lo avrebbe raddrizzato, come si suol dire. Giacomino passò tre anni d'inferno nel seminario. Nei brevi intervalli trascorsi in famiglia supplicava la mamma di non rimandarlo a Caltanissetta. Gli ultimi giorni di permanenza in casa per la povera donna erano un calvario. Il bimbo si agitava, la implorava in lacrime. Nel seminario la disciplina era implacabile. Le punizioni, anche per lievi infrazioni, rasentavano il disumano. Le ore passate in ginocchio non si contavano. Ogni momento della giornata era programmato. Gli assistenti controllavano persino il modo di giacere a letto: non si doveva dormire sul fianco sinistro perché era la parte del cuore. Patì anche il freddo e la fame. Le ristrettezze della guerra si facevano sentire. D'inverno l'enorme edificio era gelido; spesso i bambini cenavano con qualche patata o poco più. Una volta riuscì a fuggire; lo ripresero quasi subito. Nel 1945 il padre lo trasferì in un Istituto privato a Palermo ove rimase altri tre anni. Dopo qualche altro anno trascorso sempre a Palermo per la frequenza ad un liceo statale riemerse in paese in piena adolescenza. Sembrava volersi rifare, ossessivamente, con la foga e la spericolatezza, mostrate alla guida di quelle macchine, sulla dolorosa sottrazione d'infanzia subita. Economicamente se lo poteva permettere. Suo padre possedeva un cospicuo patrimonio in frutteti, oliveti e case: oltre alla sua parte di quello paterno aveva ereditato l'intero patrimonio di uno zio che aveva fatto fortuna in America e che, dopo qualche decennio, era ritornato in patria con un bel gruzzolo da investire.
Ho accompagnato Giacomino, con la moglie Lia e la deliziosa nipotina di undici anni, Bryana, a Caltanissetta in visita a quel Seminario che segnò la sua fanciullezza. Il portone era chiuso. Dal citofono una voce ci invitò a passare nel pomeriggio. A questo punto si doveva decidere se aspettare o andare a visitare la Valle dei Templi di Agrigento, seconda meta del nostro breve viaggio. Giacomino ci pensò un po'. Gli dispiaceva far soffrire la moglie in un'attesa di quattro ore con quel caldo. D'altra parte per lui ritornare al vecchio seminario era il solo scopo della gita. Erano trascorsi 64 anni ma la memoria di quei tre anni di vita nel chiuso di quel palazzo sono in lui viva. E' inutile elucubrare sul passato. Grandi filosofi dicono che esso non esiste, è il nulla, esiste solo il presente. Per essere felici bisogna vivere pienamente il presente. Sarà... Credo che pochi saggi siano in grado di raggiungere queste altezze di astrazione e di autocontrollo. Giacomino, certo, non appartiene a questa esigua schiera. In lui mi ha sempre impressionato la capacità, e il calore, di ricordare particolari anche minimi della fanciullezza e dell'adolescenza. Vive in California da 45 anni: E' passato dalla lotta per la sopravvivenza in un mondo sconosciuto all'attuale grande agiatezza. Intelligenza, costanza e coraggio, oltre ad una infinita dedizione alla propria famiglia, hanno contrassegnato la vita di quest'uomo che ancora oggi è immerso nel lavoro e parla di progetti per l'avvenire. In un certo senso invidia i figli e i nipoti: loro sono nati negli States, non hanno alcun problema, sono felici, sono americani. Egli, invece, ha lasciato il cuore in Sicilia. E' un uomo diviso. Quattro anni fa, durante un analoga gita che facemmo a Caltanissetta e ad Agrigento, mentre percorrevamo la statale verso Agrigento, lo sentii esclamare:”Ah, la mia Sicilia, perché me ne sono andato?”. Adesso non vorrebbe lasciare Caltanissetta senza aver visitato minuziosamente i luoghi del suo pezzetto di fanciullezza. Glielo leggevo negli occhi e nelle pieghe degli angoli della bocca, mentre parlava; allora iniziai un complicato discorso, rivolto principalmente a Lia, dicendo che era impossibile visitare i templi di Agrigento nelle ore più calde della giornata; tanto più che Lia soffriva terribilmente il caldo ed aveva problemi alle gambe; ad Agrigento c'era da scarpinare altrimenti non si sarebbe visto nulla; per i templi potevamo fare comodamente una gita a parte. Lia disse: “Restiamo qui”.
Con il sole a picco passammo quattro ore tra la piazza del Duomo, Corso Umberto I, le vie adiacenti (scattando foto), una rosticceria pizzeria e un caffè pasticceria. Le Chiese eran chiuse. Potevamo ammirare i monumenti nelle due piazze principali e le linee classiche del bel edificio ad angolo del municipio. Lia era tormentata dal caldo. In pizzeria non mangiò quasi nulla; non volle la pasta al forno né l'insalata di riso; si fece scaldare una pizza ma la lasciò sul piatto quasi intera. Bryana consumò solo un'arancina. Giacomino ed io mangiammo alla meglio. Al Caffè prendemmo un cannolo e un altro dolce (deliziosi) e qualche bibita. Alle sedici fummo dietro il portone del Seminario. Ci aprì un giovane sulla trentina, snello, quasi del tutto calvo, la barba di un giorno, un paio di pantaloni, una camicia e dei mocassini. Poco dopo sapemmo che era un prete. Giacomo era impaziente: in quel palazzo era racchiuso un bel tratto della sua fanciullezza. Mi consegnò la sua fotocamera dicendomi: “Fai tu le foto”. Dall'ingresso salimmo attraverso un'ampia scalinata al piano rialzato. Un largo corridoio partiva da quel punto da un lato e dall'altro. Lia si sentiva soffocare: aveva caldo. Disse che non poteva rimanere dentro, aveva bisogno di aria. Uscì e si mise ad aspettare sul marciapiede all'ombra del palazzo. Le pareti del corridoio erano zeppe di quadri antichi. Il pretino ci introdusse nella Cappella. Giacomino per tutto il tempo della visita parlò fitto fitto col prete. Gli raccontava per filo e per segno la vita trascorsa in quelle sale. Domandava di vecchi insegnanti, chiedeva informazioni sull'attuale gestione dell'Istituto. I convittori da qualche centinaio degli anni Quaranta erano ridotti a quattordici. La Cura di tanto in tanto concedeva delle sale per convegni, ritiri, incontri, manifestazioni culturali della Città. Il pretino era occupato nel pomeriggio in un lavoro d'archivio. Disponeva di uno studio immenso; la sua scrivania nei pressi di un angolo scompariva in un ambiente così grande. La Cappella, molto ampia, a forma rettangolare, mostrava un prezioso altare di marmo scolpito; ai due fianchi pannelli in legno dipinti con figure di santi, in fondo un grande organo con tutte le canne a vista, posto su un palco di legno che prendeva tutta la parete. Accostate alle pareti delle armature complete di antichi santi guerrieri. Il soffitto era affrescato con scene tratte dal Vangelo. Bryana era ammirata e stupita: curiosava dappertutto, osservava i quadri, le sculture, le incisioni; ogni tanto si avvicinava al nonno chiedendo spiegazioni, in inglese, purtroppo per me. Io ero il fotografo ufficiale: avrò scattato un centinaio di foto. Dimenticai di farne qualcuna per me con la mia macchinetta. Il pretino ci condusse nel museo. Le pareti erano occupate da grandi quadri del Sei-Settecento, opere di illustri pittori siciliani. Al piano superiore Giacomino visitò le camerate, il refettorio, le aule, le sale studio. Raccontava ogni particolare delle giornate. Il suo volto era acceso. Parlava del padre che caparbiamente l'aveva rinchiuso nell'Istituto privandolo della libertà, dei giochi, dei compagni, della felicità di vivere la sua infanzia. Non c'era astio nelle sue parole. “Mio padre commise un errore grave; per me stare in Istituto era una tortura; non mi rassegnai mai. Ma il padre, si sa, pensa sempre di fare il bene dei figli”.Se private un bambino degli affetti familiari e del mondo che lo circonda, lo ammazzate. A nulla valsero le sue lacrime disperate, quelle della madre, il babbo fu inflessibile. Togliere dalla strada il figlio, avviarlo a studi seri, prepararlo ad un futuro diverso dalla vita di campagna per il padre, che disponeva di discrete risorse economiche, era un dovere e un impegno, specie in tempi di guerra quando non funzionava niente e le scuole erano paralizzate. “Questo Istituto e quello di Palermo mi hanno tolto sei anni d'infanzia, ma non dimentico, qui c'è la mia vita”.Mi capita di dire che l'infanzia e l'adolescenza sono l'unico patrimonio dell'uomo. Credo che ciò valga anche in caso di esperienze negative. Per Giacomino la prova fu dura, ma in lui non c'è rimozione perché quella specie di carcere non ne fece una vittima. Egli riuscì a crearsi un minimo di condizioni per una vita di comunità; in questo lo aiutarono le sue doti di naturale comunicativa e l'innata disponibilità verso il prossimo. In qualche modo il carattere ne uscì rafforzato. Nelle personali vicissitudini, tra le quali spicca il forte stress dell'emigrazione in America, ha dimostrato di possedere tenacia e coraggio.
Ritrovammo Lia sul marciapiede. Per lei, parecchio in carne, vissuta in Toscana e in California, il sole e il caldo della Sicilia sono proibitivi. Su quel viale alberato aveva trovato un po' di refrigerio per una lieve brezza proveniente da nord. Giacomino con gli occhi abbracciò l'intero palazzo. Sono convinto che tornerà ancora.
Antonio Carollo
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