SULLA PENA DI MORTE
Sul settimanale online “Girodivite-Segnali dalle città invisibili”, edito a Catania, è apparso un interessante articolo sulla pena di morte di Thierry Avi.
Questo è il mio commento.
“Sono da sempre contro la pena di morte, per tutte quelle ragioni che ormai formano una letteratura sterminata. Vorrei continuare ad esserlo. Poi si viene a sapere di certi efferati asassinii, ad esempio come quelli di Erba. Assassinii plurimi perpetrati con lucida premeditata ferocia, per motivi futili o abietti. Allora tutti i discorsi sul cammino della civiltà attraverso i millenni, ecc. cominciano ad appannarsi, mentre si staglia nitida dinanzi alla nuda coscienza la figura di una dea implacabile e fredda: la Giustizia. Quattro vite umane, compresa quella di un bambino, nel nostro caso, la reclamano disperatamente, gridano giustizia. Allora i traguardi di secoli di evoluzione culturale e di crescita civile vacillano di fronte ad una verità incontrovertibile: il principio di giustizia non muta; la commisurazione della pena alla entità del crimine è ineludibile. Non c’entrano più l’umanità della pena e la redenzione del reo. Siamo a tu per tu con quella dea terribile che si erge decisa nello scenario spesso confuso della nostra coscienza. E’ sufficiente la privazione della libertà? Non credo, per come viene applicata dalla legislazione italiana.”
Sono seguite le seguenti osservazioni da parte del sig. Riccardo Ricciardini:
“Caro Antonio, tu dici che la galera non basta, che vuoi di più, che ritieni indispensabile la pena di morte. Il tutto partendo dall'affermazione che sei contrario. Ma se non lo sei perché cominci dicendo che invece sei contrario?”
La mia risposta:
“Caro Riccardo Ricciardini, hai ragione a far notare una certa contraddittorietà in quel che ho scritto. Di fronte all’orrore di una strage come quella di Erba la mia vecchia convinzione nel definire la pena di morte come delitto di Stato ha subito una forte scossa, ha vacillato. Ecco, con le mie parole ho voluto rendere (forse non riuscendovi) il senso di questo vacillamento. Ammetterai che qualche volta affiorano dalla coscienza delle domande angosciose: la soppressione di quattro vite umane è uno di questi momenti; in questo caso la domanda, oltre che angosciosa, è imperiosa. Quando parlo di dea fredda e implacabile mi riferisco alla giustizia e non alla morte o alla pena di morte; poi accenno al problema drammatico della commisurazione della pena all’entità del delitto (infatti il simbolo della giustizia è la bilancia). Alla fine compio un azzardo: in un caso come quello di Erba basta la privazione della libertà per come è praticata nel nostro sistema carcerario? Cioè nei modi, un po’ all’italiana, consueti per condannati colpevoli di illeciti di media odiosità. Per assassini così feroci non andrebbe pensato un regime carcerario più rigoroso? Posso pormi questa domanda? Grazie per le cortesi osservazioni. Saluti cordiali. Antonio Carollo”
Questo è il mio commento.
“Sono da sempre contro la pena di morte, per tutte quelle ragioni che ormai formano una letteratura sterminata. Vorrei continuare ad esserlo. Poi si viene a sapere di certi efferati asassinii, ad esempio come quelli di Erba. Assassinii plurimi perpetrati con lucida premeditata ferocia, per motivi futili o abietti. Allora tutti i discorsi sul cammino della civiltà attraverso i millenni, ecc. cominciano ad appannarsi, mentre si staglia nitida dinanzi alla nuda coscienza la figura di una dea implacabile e fredda: la Giustizia. Quattro vite umane, compresa quella di un bambino, nel nostro caso, la reclamano disperatamente, gridano giustizia. Allora i traguardi di secoli di evoluzione culturale e di crescita civile vacillano di fronte ad una verità incontrovertibile: il principio di giustizia non muta; la commisurazione della pena alla entità del crimine è ineludibile. Non c’entrano più l’umanità della pena e la redenzione del reo. Siamo a tu per tu con quella dea terribile che si erge decisa nello scenario spesso confuso della nostra coscienza. E’ sufficiente la privazione della libertà? Non credo, per come viene applicata dalla legislazione italiana.”
Sono seguite le seguenti osservazioni da parte del sig. Riccardo Ricciardini:
“Caro Antonio, tu dici che la galera non basta, che vuoi di più, che ritieni indispensabile la pena di morte. Il tutto partendo dall'affermazione che sei contrario. Ma se non lo sei perché cominci dicendo che invece sei contrario?”
La mia risposta:
“Caro Riccardo Ricciardini, hai ragione a far notare una certa contraddittorietà in quel che ho scritto. Di fronte all’orrore di una strage come quella di Erba la mia vecchia convinzione nel definire la pena di morte come delitto di Stato ha subito una forte scossa, ha vacillato. Ecco, con le mie parole ho voluto rendere (forse non riuscendovi) il senso di questo vacillamento. Ammetterai che qualche volta affiorano dalla coscienza delle domande angosciose: la soppressione di quattro vite umane è uno di questi momenti; in questo caso la domanda, oltre che angosciosa, è imperiosa. Quando parlo di dea fredda e implacabile mi riferisco alla giustizia e non alla morte o alla pena di morte; poi accenno al problema drammatico della commisurazione della pena all’entità del delitto (infatti il simbolo della giustizia è la bilancia). Alla fine compio un azzardo: in un caso come quello di Erba basta la privazione della libertà per come è praticata nel nostro sistema carcerario? Cioè nei modi, un po’ all’italiana, consueti per condannati colpevoli di illeciti di media odiosità. Per assassini così feroci non andrebbe pensato un regime carcerario più rigoroso? Posso pormi questa domanda? Grazie per le cortesi osservazioni. Saluti cordiali. Antonio Carollo”
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