Mario
A volte ai giochi di noi maschi si univano le cuginette Pina, Terina, Giannina, Anna, specie quando si giocava ai quattro cantoni.. Davamo noia ad un invalido di guerra con una gamba di legno, che si muoveva in una sua stanzuccia a pianterreno con due pesanti grucce. Lo facevamo arrabbiare con dei versacci o bussando alla sua porta. Lui ci gridava e ci minacciava alzando una gruccia. Lo bersagliavamo ma ne avevamo paura. La sua stanza era per noi un antro pauroso e lui un orco. Ci faceva senso vedere tutti i giorni una sua nipote entrargli tranquillamente in casa, senza paura, con l'involucro del pasto per mano. Una volta, esasperato, ci lanciò contro una gruccia, inveendo. Intervenne zia Pippina sgridandoci aspramente e riportando la gruccia all'invalido, che chiamavamo lo sciancato. L'abitazione della zia, ed anche ovviamente dei miei cugini, sorgeva a due passi, di fronte a quella dello sciancato. Era una costruzione tipica di Trabia: un pianterreno, un primo e un secondo piano con terrazzo. Di particolare aveva in più un mezzanino che qualche volta zia Pippina ci faceva usare per giocare. La zia era una trentenne, i capelli lisci e lunghi raccolti in un nodo complicato dietro la nuca, una veste fin sotto i ginocchi, a colore e fiorellini, su cui quasi sempre indossava un un grembiule da cucina, i lineamenti ben marcati; non poteva badare molto a noi perché aveva, in quell'epoca, sette figli di cui quattro piccolissimi, e non aveva un attimo di respiro, anche perché il marito, zio Peppino, era sempre a Palermo, totalmente preso dal suo lavoro di commerciante (partiva la mattina col buio per prendere il primo treno e ritornava la sera col buio): nel dopoguerra non era uno scherzo mandare avanti una famiglia di nove persone. La zia ci teneva a che non disturbassimo il povero invalido, per cui un po' ci sorvegliava; era puntuale come un orologio a chiamarci all'ora della merenda, costituita da fette di pane con formaggio, o marmellata, e frutta. Io rimanevo fuori, in strada, ma lei immancabilmente mi chiamava e mi faceva prendere la stessa merendina. Era energica e severa, ma guardava noi bambini con una luce negli occhi.
.A volte ci ritrovavamo in contrada Cozzo Corvo, in una proprietà di nonno Mariano. Scorrazzavamo per l'oliveto, la vigna, il frutteto e per i campi di stoppie attraverso la collina sulla quale due grandi massi ne segnavano il punto più alto. Loro erano più scatenati di me perché, vivendo in paese tutto l'anno, più affamati di campagna e di libertà. Io conoscevo a menadito il campo d'azione perché vi passavo in villeggiatura la stagione estiva, nella casa di mio padre vicina a quella del nonno. Li guidavo ai nidi di passeri, cardellini, merli, fringuelli, andavamo sulle tracce dei conigli selvatici i cui escrementi qua e là ci segnalavano la loro presenza; qualche volte li vedevamo scappare da un cespuglio a lunghi veloci saltelli e scomparire in lontananza; ci arrampicavamo sui grossi massi in cima alla collina e salutavamo festosamente i passanti laggiù sulla strada di Amureddu in groppa alle loro bestie o sui carretti; il fischio del treno in arrivo al passaggio a livello di Pilieri ci faceva piombare ai bordi della ferrovia per salutare i passeggeri affacciati ai finestrini. Ci affascinava la locomotiva sbuffante di vapore con quel bel pennacchio di fumo e il suo ansare sull'ampia curva un po' in salita che immetteva sul rettilineo per Trabia; e quei viaggiatori che rispondevano ai nostri gesti di saluto, che ci sembravano appartenere ad un mondo fatato. Quando c'erano anche le tre cuginette allestivamo un'altalena sotto una chianca d'olivo e giù a spingere per arrivare più in alto, oppure giocavamo a nascondino nella grande casa del nonno dove i posti per nascondersi non mancavano o andavamo a caccia di frutta. Mario era sempre tra gli animatori, pieno d'inventiva per nuovi giochi: andiamo al treno!, andiamo alla vigna!, facciacciamo le corse! e tutti dietro.
La disgrazia successe proprio al Cozzo Corvo. Era finita la scuola e mio padre il giorno dopo mi portò con sé in campagna dove tra pochi giorni ci saremmo trasferiti per la villeggiatura. La mia gioia andò alle stelle quando all'arrivo alla nostra casa vidi Mario correre verso di noi. “Ciao zio, ciao Antoniucciu”, e, rivolto a me: “ Andiamo, ti faccio vedere una cosa”. Saltai dal carretto e corsi via insieme a lui in mezzo all'oliveto mentre mio padre mi diceva che sarebbe andato a San Miceli, che l'aspettassi per il pomeriggio. Mario mi portò oltre la vigna, sotto un mandorlo. “Ecco, guarda cosa c'è qui”, mi mostrò un foro sotto un ciuffo d'erba. “E' la tana di un coniglio; vedi questi peli grigi ai bordi?, sono suoi. Qui intorno ci sono le sue cacatine”. Si chinò e introdusse la mano nella tana, fino a farvi scomparire l'intero braccio. “Forse è in giro, oppure si è ritirato in fondo. Sono furbi i conigli, che ti pare”. Dissi: “Che facciamo?”, alzai una mano e presi una mandorla, schiacciai la drupa tra i denti, dentro il nocciolo il seme era molliccio, troppo presto per mangiarlo. “Aspettiamo, prima o poi uscirà e noi lo prenderemo”. “Ma che dici, e se è fuori? Lui ci ha già fiutato”.Ci sedemmo davanti alla tana.. Dissi: “Tu non lo sai, io qualche giorno fa ho preso un coniglio con le mani”. “Non ci credo”. “Domanda a mio padre”, e gli raccontai come avevo fatto.
Era stata una cosa elettrizzante. Mio padre, ma anche il nonno e gli zii, irrigava il frutteto trasportando l'acqua a mezzo di un motore elettrico e di una tubazione da una cisterna, alimentata dall'acqua di Trabia, dai piedi del declivio fino ad una gebbia (vasca) posta più in alto, a qualche centinaio di metri. Dalla gebbia si diramava una condotta che permetteva l'irrigazione della proprietà di mio padre. Ogni anno, ovviamente, c'era una prima volta, cioé la prima irrigazione stagionale della tenuta. Quell'anno mio padre mi portò con sé. Si sarà accorto di qualcosa, non so; mi disse che forse una coppia di conigli aveva fatto la tana proprio dentro il tubo dell'acqua; dovevo stare attentissimo, pronto con le mani ad acchiappare il coniglio che, se c'era, sarebbe uscito al momento dello sbocco dell'acqua nella vaschetta di distribuzione; bisognava parare l'imboccatura della condotta con tutt'e due la mani, senza un attimo di distrazione. “Attento che il coniglio ti può sgusciare via contorcendosi e usando le zampette”, mi disse mio padre e s'avviò verso la casetta del motore, laggiù vicino alla ferrovia. Il cuore cominciava a battermi. C'era ancora del tempo, ma io mi sedetti sul muricciolo della vaschetta e mi chinai con le mani davanti al buco. Mio padre era un quarantenne, robusto e con discreta pancetta, non certo un campione di velocità. I miei orecchi erano tesi a captare il minimo borbottìo dell'acqua che sarebbe arrivata spingendo fuori l'aria. Nessun rumore, solo il canto dell'allodola e il cinguettìo degli altri uccelli. Mio padre doveva scendere alla casetta del motore, prendere la paratoia, attraversare la ferrovia, metterla sul condotto dell'acqua, proveniente dal paese, per deviarla verso la cisterna, ritornare alla casetta, attendere che la cisterna si riempisse per metà, accendere il motore.. Il tempo ci voleva. Il fischio di un treno mi avvertì dell'inevitabile allungamento dei tempi. Pazienza. Io stavo lì, sempre chino con le mani pronte: che non scappasse il coniglio prima dell'arrivo dell'acqua. Il rumore del treno non finiva mai. Doveva essere un treno merci. Un lieve tramestìo, una lucertola uscì di corsa sfiorando le mie mani. Mi ritrassi di scatto ma mi rimisi subito nella posizione di prima. Quanto tempo passò? Cinque, dieci, quindici minuti? A me parve un'eternità. Finalmente il borbottìo. Il cuore ebbe un'accelerata battendomi sulle tempie. Le mani rigide pronte alla presa. L'acqua cominciò a scorrere, niente coniglio, ma il tubo in pochi attimi si sarebbe riempito d'acqua; se c'era non avrebbe avuto scampo. Un urto sulle mani, le dita si chiusero come artigli. Stringi, stringi, il coniglietto squittiva lamentosamente, si contorceva, cercava di scivolarmi tra le dita aiutato dal pelo fradicio d'acqua, si dava da fare con le zampette, ma la mia presa era una morsa. M'invase un'ondata di eccitazione e di felicità. “Papà Papà, l'ho preso, l'ho preso!” Diedi un balzo dalla vaschetta d'irrigazione e corsi sul campo di stoppie. Il coniglio squittiva; gli guardavo il capo che scuoteva freneticamente, gli occhietti erano pieni di terrore, non s'arrendeva. Forse lo stavo ammazzando, gli strizzavo troppo la pancia, allentai leggermente i miei artigli. “Papà, vieni vieni, guarda!”. Mio padre arrivò trafelato, e, anche lui, eccitato: “Bravo'Ntunuzzu!, dammelo a me; ci penso io. Tu intanto bada all'acqua chiudendo con la zappa via via le caselle che si riempiono”. Prese il coniglio per le zampe posteriori e lo tirò su penzoloni. “Bel coniglio!” Era un esemplare lungo, adulto, forse una femmina. Io non staccavo gli occhi dalla bestiola che s'agitava e scuoteva energicamente tutto il corpo.Mio padre s'avviò verso casa che era a dieci passi dicendomi: “Ora vengo, stai attento all'acqua, fai riempire bene le caselle, le piante sono assetate!”. Tornò dopo una decina di minuti. “E il coniglio?” gli chiesi. “L'ho appeso al chiodo della stalla”. Fu come se m'avessero dato una pugnalata. “L'hai ammazzato!”. Lasciai il giardino (frutteto) e scappai in mezzo agli ulivi. Mio padre mi gridò dietro: “'Ntunuzzu, i conigli selvatici non si possono allevare, sono soltanto selvaggina; vedrai domani come sarà buono a tavola. La mamma lo sa cucinare bene. Dove vai?”. Rimasi un bel po' di tempo sotto un grosso ulivo, poi, con l'umore a terra, cominciai ad errare sulla collina. Nel tardo pomeriggio tornai a casa. Lo vidi penzolare dal chiodo, immobile. Sapevo come si ammazzavano i conigli, la mamma me l'aveva detto tante volte: un pugno in testa ed era bell'e morto, dopo qualche attimo di scuotimenti. Girai gli occhi e non volli più vederlo. Durante il viaggio di ritorno al paese non spiccicai una parola. Il giorno dopo mangiai solo pasta, verdura e frutta, rifiutando il coniglio in umido che invece deliziò genitori e fratelli.
“Tu l'hai mai preso un coniglio con le mani?”feci a Mario. “No, ma io non ho un posto dove prenderlo. Io l'avrei tenuto quel coniglietto”. “Te l'ho detto, i conigli selvatici non si allevano”. “Non è vero, io sarei scappato, non l'avrei dato a mio padre”. “Vabbe', allora perché non allevi qualche coniglio domestico?”. “E dove?, a casa mia? Andiamo al gippone”. “Sì andiamo, facciamo a chi arriva primo”. E via di corsa lungo il pendio fino ai piedi del colle dal lato est. Il gippone era un residuato bellico, abbandonato lì dai soldati americani. Rimaneva lo scheletro: vi erano stati asportati il motore, le ruote, i sedili, il volante, gli sportelli ai lati del cassone. Arrivai prima io, perché avevo due anni in più ed ero uno dei più veloci tra i miei compagni di scuola. Mario non sembrò affatto contrariato, Salimmo su quel rottame e a turno facemmo le finte di guidarlo imitando con la voce il rumore del motore; lo ispezionammo ben bene per vedere se c'era qualcosa di utile da prendere.
Dopo un po' via come frecce verso l'albero di fichi in cima al campo di stoppie, sotto la cui ombra ci sedemmo. “Vedi là”, feci segno con la mano, “all'orizzonte, dove finisce il mare? Durante la guerra una nave sparava cannonate, mentre un aereo mitragliava vicino casa mia. Mio padre ci fece sfollare alle grotte di Burgio” “I nostri soldati dov'erano?”. “Mah.... Prima dell'arrivo degli americani ho visto un tedesco scendere da un camion, davanti al bar di Sari' Di Vittorio. Aveva l'elmetto e la baionetta. Un bambino gli chiese qualcosa e lui disse: “Nix, nix...” . “Nonno ha detto che ci sono stati tanti tradimenti, se no l'Italia vinceva”. “Lo sai che tutto u' Cozzu Corvu era pieno di soldati americani?” dissi io. “Lo so, lo so”. “C'era la guerra, ma loro erano amici. Ci davano tante cose buone. Non facevano male a nessuno”. “Però prima avevano buttato le bombe anche a Trabia e ucciso diverse persone. Una bomba è cadutta sulla casa du paranni e da maranni”. “Quelli delle bombe erano altri, questi qui non sparavano, stavano nelle loro tende; attendevano ordini; non andavano al fronte perché erano meccanici”. “Zio Pinù l'hanno mandato in Russia ed è disperso. Che significa?”. “Che si è perso o è morto e non l'hanno riconosciuto. Nonno dice che forse si è salvato ed ora si trova a Mosca, sposato e con figli. Chi va in Russia non può più tornare, ma lui aspetta sempre. In America è diverso, tanti miei parenti abitano lì. Lo sai che un giorno un mio cugino, Sam, figlio di mia zia Titì di Pittsburgh, sergente nell'esercito americano, venne in licenza in aereo da Napoli? Mia madre l'abbracciò e si mise a piangere. Gli fece un bel pranzo, pasta col sugo di pomodoro, triglie ai ferri con olio e limone, melanzane alla parmigiana, caluzzeddi fritti, frutta, vino e caffé. Lui diceva grasie grasie, thank you, ed era tutto contento. Non parlava bene 'u sicilianu ma si faceva capire. Accorsero per conoscerlo i parenti di mia madre; erano incantati da quel bel giovane. Portava gli occhiali, aveva il viso pieno, un bel sorriso, era ben rasato e profumava di acqua di colonia. Ci guardava con affetto e curiosità; forse gli sembravamo gente di un altro mondo. Indossava una elegante divisa cachi, pantaloni, camicia e cravatta, col grado di sergente attaccato sul petto e sulle mostrine. Era alto, capelli e occhi castani. Estrasse un pacco dalla valigia e lo mise sul tavolo, lo scartò e venne fuori un ben di Dio: un vestito per mia madre, una cravatta per mio padre, una maglietta per me, una gonna per la sorella e un berretto per il fratello, scatolette di carne, pacchetti di caramelle e cioccolato, una stecca di sigarette. Mia madre, ed anche noi, guardava tutta quella roba con occhi luccicanti: “E' tutto per noi?” disse e di nuovo abbracciò e baciò suo nipote. Sam scattò tante fotografie. E' stato lui a farmi la fotografia della prima comunione; veramente l'avevo passata due anni prima, ma c'era la guerra e non si trovavano fotografi. Mia madre andò a prendere il vestito bianco, pantaloncini lunghi e giacchetta con le dorature e mi fece fotografare davanti alla porta di casa; però i pantaloncini ormai mi stavano corti e al posto delle scarpe avevo gli zoccoli”.
Mario disse: “Se era tuo cugino perché è venuto a farci la guerra?”. Risposi: “I soldati devono ubbidire ai loro comandanti, se no li fucilano; gli americani sono venuti a liberarci”. “Mah... non eravamo liberi?”. “Lo zio Luigi, che abita di fronte a casa mia, ha detto che ci hanno liberato dal fascismo, però non per farci un favore ma per comandare loro; lui queste cose le sa perchè ascolta tutti i giorni la radio e legge il giornale”. “Vabbe'...”
Due grossi uccelli strillando si posarono su un ramo in cima all'albero; un attimo dopo volarono via, spaventati dalla nostra presenza. Li seguimmo con lo sguardo. “Sono marito e moglie” dissi. Il cielo era incendiato da un sole implacabile, ma sotto il fico, all'ombra, si stava bene, una fresca brezza di mare ci carezzava il viso; le cicale stridevano senza mai smettere. Mario si alzò stiracchiando le braccia. “Cerchiamo sotto gli ulivi, potremmo trovare qualche oggetto lasciato dai soldati. Certi ragazzi hanno trovato degli apparecchietti di metallo con lo scatto, servono per lanciare lontano dei sassetti ”, disse. “Mia madre mi dice sempre di non toccare le cose lasciate sul terreno dagli americani, possono essere delle bombe, ma a me piacerebbe avere una macchinetta come quella che dici tu”, dissi. “Vieni, andiamo a cercare”. Si alzò e andò verso l'oliveto un tempo occupato dagli attendamenti dei militari americani. “Ho sete, vado a bere dal nonno; vengo subito”, risposi. Mi diressi di corsa verso la casa sottostante di cui si vedeva solo il tetto di tegole rosse. Volevo far presto. Ero invidioso dei ragazzi in possesso di quei piccoli congegni residuati con cui giocavano orgogliosi. Tante volte m'ero messo a cercarli, ma niente.
Trovai nonno Mariano che a piccoli passi strascicati, aiutandosi con un bastone e una zappetta, stava andando a sedersi sulla ghiuttena (sedile di muratura) di casa. I pochi capelli, ancora scuri, gli cascavano sulla fronte sudaticcia. Con un ultimo sforzo riuscì a sedersi. Aveva fatto il suo solito giro del frutteto ed era stanco. Per lui era un'impresa perché da tanti anni aveva le gambe quasi paralizzate. Diede un sospiro di sollievo: “Aah, 'Ntunuzzu, dov'é Mario?” Gli dissi che era nell'oliveto e che prendevo un bicchiere d'acqua dalla brocca. Bevvi con avidità. “Senti, 'Ntunuzzu, tuo zio Mané sta lavorando nel giardino e ritarda; ormai tu sei grande, prendi il mulo e lo porti a bere alla gebbia, va bene?”, mi disse guardandomi con un sorriso. Non me lo feci ripetere. Andai nella stalla sotto la pinnata (copertura in muratura sorretta da pilastri), slegai la corda della cavezza dall'anello della mangiatoia e mi avviai alla gebbia. Il mulo era un bel baio giovane, il pelo lucido, una discreta pancia, una criniera lunga; non stava fermo con la testa, quasi mi strappava le redini, ma io non mi facevo intimidire: gli davo voce e gli tiravo le redini. Mio padre mi aveva detto che con le vestie non si deve avere paura sennò se ne approfittano e sono capaci di dare dei morsi o del calci; invece deve comandare l'uomo. Io ero felice e mi sentivo forte, però stavo attento che non si prendesse troppa confidenza. Forse Ciccio capì l'antifona perché dopo aver fatto qualche capriccio agitandosi un po' si mise a camminare tranquillo dietro di me. La gebbia era piena d'acqua, l'agitai un po' con la mano per allontanare qualche frasca. Ciccio si mise a bere di buona lena. Sentivo il rumore dell'acqua che passava attraverso l'esofago.Ad un tratto un terribile botto lacerò l'aria. Io mi sentii morire. Ciccio diede uno scarto alzando la testa. Un attimo dopo udii delle urla disperate. Pensai a Mario, aveva trovato una bomba? Sgomento, legai il mulo ad un palo di legno e corsi verso la casa del nonno. Vidi zio Manè correre verso l'oliveto e poi scendere con Mario in braccio. Quando arrivai zio Manè stava svuotando un fiasco di vino su una mano del bambino, ridotta ad un'informe massa sanguinolenta con brandelli di ossa e carne penzoloni. Mio nonno era come impazzito, gridava: “Stringi forte il polso con i fazzoletti, prendi l'asciugamano. Fai presto!”. Mario urlava. Io non sapevo cosa fare. Cercai in casa con furia uno asciugamano, lo trovai e lo diedi allo zio. Mario dopo un po', forse per l'effetto dell'alcol contenuto nel vino, smise di urlare e cominciò a lamentarsi sconsolatamente. Il nonno disse: “Manè, portalo subito sulla strada statale, chiedi un passaggio e vai all'ospedale a Termini. Maliritti sti miricani!”, e lanciò con forza il bastone verso la stradella. Io dissi: “Vado pure io”, ma il nonno scosse la testa: “Tu sei piccolo, non puoi fare niente”. Zio Mané, così com'era, con gli indumenti da lavoro, prese in braccio Mario e si avviò sulla stradella per scendere alla ferrovia e da lì alla statale. Lo vidi svoltare all'altezza della gebbia.