Friday, February 16, 2007

EVERYMAN di Philip Roth

Il nuovo romanzo di Philip Roth è una storia intima eppure universale di perdita, rimpianto e stoicismo. Dopo il successo di Complotto contro l'America, Roth sposta la sua attenzione dallo «straziante incontro di una famiglia con la storia» («The New York Times») all'incessante battaglia di un uomo con la propria mortalità.

Il destino dell'Everyman di Roth si delinea dal primo sconvolgente incontro con la morte sulle spiagge idilliache delle sue estati di bambino, attraverso le prove familiari e i successi professionali della vigorosa maturità, fino alla vecchiaia, straziata dall'osservazione del deterioramento patito dai suoi coetanei e funestata dai suoi stessi tormenti fisici.

Pubblicitario di successo presso un'agenzia newyorkese, è padre di due figli di primo letto, che lo disprezzano, e di una figlia nata dal secondo matrimonio, che invece lo adora. È l'amatissimo fratello di un uomo buono la cui prestanza fisica giunge a suscitare la sua più aspra invidia, ed è l'ex marito di tre donne diversissime tra loro, con ciascuna delle quali ha mandato a monte un matrimonio. In definitiva, è un uomo che è diventato ciò che non vuole essere.

L'humus di questo potente romanzo - il ventisettesimo di Roth e il quinto in pubblicazione nel ventunesimo secolo - è il corpo umano. Il suo tema è quell'esperienza comune che ci terrorizza tutti.

Everyman prende il titolo da un'anonima rappresentazione allegorica quattrocentesca, un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte.


L'inizio di Everyman

Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c'erano alcuni dei suoi ex colleghi pubblicitari di New York che ricordavano la sua energia e la sua originalità e che dissero alla figlia, Nancy, che era stato un piacere lavorare con lui. C'erano anche delle persone venute su in macchina da Starfish Beach, il villaggio residenziale di pensionati sulla costa del New Jersey dove si era trasferito dal Giorno del Ringraziamento del 2001: gli anziani ai quali fino a poco tempo prima aveva dato lezioni di pittura. E c'erano i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, Randy e Lonny, uomini di mezza età molto mammoni che di conseguenza sapevano di lui poche cose encomiabili e molte sgradevoli, e che erano presenti per dovere e nulla più. C'erano il fratello maggiore, Howie, e la cognata, venuti in aereo dalla California la sera prima, e c'era una delle sue tre ex mogli, quella di mezzo, la madre di Nancy, Phoebe, una donna alta, magrissima e bianca di capelli, col braccio destro inerte penzoloni sul fianco. Quando Nancy le chiese se voleva dire qualcosa, Phoebe scosse timidamente il capo, ma poi finì per dire con voce sommessa, farfugliando un po': - È talmente incredibile… Continuo a pensare a quando nuotava nella baia... Tutto qui. Continuo solo a vederlo mentre nuota nella baia -. E poi c'era Nancy, che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate a quelli che erano venuti per evitare che al funerale venissero solo sua madre, lei, il fratello del defunto e la cognata. C'era solo un'altra persona la cui presenza non era stata sollecitata da un invito, una donna robusta con una simpatica faccia tonda e i capelli tinti di rosso che era venuta spontaneamente al cimitero e si era presentata col nome di Maureen, l'infermiera privata che lo aveva assistito dopo l'operazione al cuore di qualche anno prima. Howie si ricordava di lei e andò a darle un bacio sulla guancia.

Nancy disse a tutti: - Posso iniziare dicendovi qualcosa di questo cimitero, perché ho scoperto che il nonno di mio padre, il mio bisnonno, non solo è sepolto nelle poche centinaia di metri quadrati del nucleo originario accanto alla mia bisnonna, ma fu anche uno dei suoi fondatori nel 1888. L'associazione che per prima finanziò ed eresse il cimitero era composta dalle società incaricate delle onoranze funebri delle organizzazioni caritatevoli e delle congregazioni ebraiche sparse nelle contee di Union ed Essex. Il mio bisnonno era il proprietario e il gestore di una pensione di Elizabeth che accoglieva soprattutto immigrati arrivati di fresco, e si preoccupava del loro benessere più di quanto in genere facesse un possidente. Ecco perché fu tra i soci originari che acquistarono il campo che c'era qui e lo spianarono e lo disegnarono personalmente, ed ecco perché diventò il primo presidente del cimitero. Allora era un uomo relativamente giovane ma nel pieno vigore delle forze, e c'è solo il suo nome sui documenti nei quali si specifica che il cimitero era destinato ad «accogliere i soci defunti in armonia con le norme e i riti ebraici». Come appare fin troppo evidente, la manutenzione dei singoli lotti e del recinto e dei cancelli non è più come dovrebbe essere. Le cose sono marcite e crollate, i cancelli sono arrugginiti, i lucchetti spariti, ci sono stati dei vandalismi. Ormai questo posto è diventato il retrobottega dell'aeroporto, e quello che sentite a qualche miglio di distanza è il rumore costante dell'autostrada, la New Jersey Turnpike. Naturalmente avevo pensato, prima, ai posti veramente belli dove mio padre poteva essere sepolto, i posti dove andava a nuotare con mia madre quando erano giovani, e le località costiere dove amava fare il bagno. Ma nonostante il fatto che guardarmi intorno e vedere il degrado che c'è qui mi spezza il cuore - come probabilmente spezza il vostro, e forse addirittura vi spinge a domandarvi perché ci siamo riuniti in un luogo così deturpato dal tempo - volevo che riposasse accanto alle persone che lo amavano e dalle quali è disceso. Mio padre amava i suoi genitori e deve stare vicino a loro. Non volevo che fosse solo, chissà dove -. Tacque un momento per ritrovare la padronanza di sé. Era una donna fra i trenta e i quarant'anni, dall'aria dolce, semplice e carina com'era stata la madre, e all'improvviso perse tutta la sua autorevolezza e il suo coraggio e finì per somigliare a una bambina di dieci anni schiacciata da quella situazione. Voltandosi verso la bara, prese una manciata di terra e, prima di lasciarla cadere sul coperchio, disse con leggerezza, sempre con quell'aria da bambina frastornata: - Be', così vanno le cose. Non c'è più niente da fare, papà -. Poi le venne in mente la stoica massima che lui ripeteva decenni addietro, e scoppiò in lacrime. - È impossibile rifare la realtà, - gli disse. - Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono.

Il prossimo a gettare un pugno di terra sul coperchio della bara fu Howie, il fratello del defunto, che era stato oggetto della sua adorazione quando i due ragazzi erano piccoli e che in cambio lo aveva sempre trattato con dolcezza e grande affetto, insegnandogli pazientemente ad andare in bicicletta e a nuotare e a praticare tutti gli sport nei quali lo stesso Howie eccelleva. Aveva ancora l'aria di poter andare in meta con la palla, e aveva settantasette anni. Non era mai stato ricoverato all'ospedale per nessun motivo e, pur essendo dello stesso stampo, era rimasto trionfalmente sano per tutta la vita.


La sua voce era appannata dall'emozione quando sussurrò alla moglie: - Il mio fratellino. Non ha senso -. Poi anche lui si rivolse a tutti. - Vediamo se ce la faccio. Parliamo dunque di questa persona. Mio fratello... - Si interruppe per raccogliere le idee e tenere un discorso filato. Il suo modo di parlare e il simpatico tono di voce somigliavano a quelli del fratello, tanto che Phoebe cominciò a piangere e Nancy, in fretta, la prese a braccetto. - Negli ultimi anni, - disse, guardando verso la fossa, - ha avuto problemi di salute, e c'era anche la solitudine… Problema non minore. Ci parlavamo per telefono ogni volta che era possibile, anche se verso la fine della vita si era isolato da me per ragioni che non sono mai state chiare. Da quando era al liceo ha sempre avuto un bisogno irresistibile di dipingere, e dopo essere andato in pensione e aver lasciato il mondo della pubblicità, dove aveva avuto un considerevole successo prima come art director e poi quando fu promosso creative director… Dopo una vita nella pubblicità, ha dipinto praticamente ogni giorno di ogni anno che gli rimaneva. Possiamo dire di lui ciò che senza dubbio è stato detto dai loro cari di quasi tutte le persone qui sepolte: avrebbe dovuto vivere più a lungo. Avrebbe dovuto, davvero -. Qui, dopo un momento di silenzio, l'espressione triste e rassegnata che aveva sul viso diede luogo a un sorriso addolorato. - Quando io andavo in prima liceo, e nel pomeriggio avevo gli allenamenti, lui mi sostituiva nelle commissioni che sbrigavo per mio padre dopo la scuola. Gli piaceva, ad appena nove anni, portarsi i diamanti in una busta nella tasca della giacca sull'autobus per Newark, dove il montatore e il misuratore e il lucidatore e l'aggiustatore di orologi impiegati da nostro padre occupavano uno sgabuzzino per ciascuno in un angolo di Frelinghuysen Avenue. Quei viaggi gli davano un'enorme soddisfazione. Io credo che fu proprio la vista di questi artigiani che facevano il loro lavoro solitario in quei cubicoli a suggerirgli l'idea di usare le mani per creare opere d'arte. E penso che guardare le faccette dei diamanti attraverso la lente da gioielliere di mio padre sia un'altra delle cose che incoraggiarono il suo desiderio di prendere la via dell'arte -. Improvvisamente una risata ebbe la meglio, un momento di sollievo da quel compito doloroso, e Howie disse: - Io ero il fratello tradizionale. In me i diamanti incoraggiavano il desiderio di far quattrini -. Poi riprese da dove si era interrotto, spaziando con lo sguardo oltre la grande finestra soleggiata degli anni dell'infanzia. - Nostro padre metteva un piccolo annuncio sull'«Elizabeth Journal» una volta al mese. Nel periodo delle feste, tra il Ringraziamento e Natale, lo metteva una volta la settimana. «Cambiate il vostro vecchio orologio con uno nuovo». Tutti questi vecchi orologi che accumulava - per la maggior parte ormai inservibili - li buttava in un cassetto nel retrobottega. Il mio fratellino era capace di stare là seduto per ore, facendo girare le lancette e ascoltando il ticchettio degli orologi, se ticchettavano ancora, e studiando a cosa somigliava ogni cassa e ogni quadrante. Era questo che faceva ticchettare quel ragazzo. Cento, duecento orologi dati dentro, un cassetto pieno che forse non valeva più di dieci dollari, ma ai suoi occhi di artista in erba quel cassetto di orologi nel retrobottega era un forziere che conteneva un tesoro. Aveva l'abitudine di prenderli e portarli: aveva sempre al polso un orologio tirato fuori da quel cassetto. Uno di quelli ancora funzionanti. E quelli che cercava di rimettere in funzione, quelli che gli piacevano, con quelli trafficava a non finire, ma inutilmente: di solito riusciva solo a peggiorare la situazione. Però quello fu l'inizio, il momento in cui cominciò a usare le mani per eseguire operazioni meticolose. Mio padre aveva sempre due ragazze appena uscite dal liceo, due ragazze poco meno o poco più che ventenni, che lo aiutavano dietro il banco del negozio. Brave e dolci ragazze di Elizabeth, educate, perbene, sempre cristiane, per lo più cattoliche di origine irlandese, i cui padri e fratelli e zii lavoravano per la Singer Sewing Machine o per la fabbrica di biscotti o giù al porto. Immaginava che delle brave ragazze cristiane avrebbero fatto sentire i clienti più a loro agio. Su richiesta, queste ragazze provavano i gioielli per le clienti, come modelle, e se eravamo fortunati le clienti finivano per comprarli. Come ci diceva mio padre, quando una bella ragazza porta un gioiello, le altre donne pensano che quando lo porteranno loro faranno la stessa figura. Gli uomini che lavoravano al porto e venivano a cercare anelli di fidanzamento e fedi nuziali per le loro amichette certe volte avevano l'audacia di prendere la mano della commessa per esaminare la pietra da vicino. Anche a mio fratello piaceva gironzolare intorno alle ragazze, e questo accadde molto tempo prima che potesse anche solo arrivare a capire perché gli piaceva tanto. Aiutava le ragazze a vuotare la vetrina e gli astucci di velluto alla fine della giornata. Avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarle. Dalle vetrine e dagli astucci toglievano tutto tranne la roba più economica, e un momento prima di chiudere questo ragazzino apriva la grande cassaforte nel retrobottega con la combinazione che gli aveva detto mio padre. Prima di lui, tutti questi lavoretti li avevo fatti io, compreso l'accostarsi il più possibile alle ragazze, specie alle due sorelle bionde di nome Harriet e May. Nel corso degli anni ci fu Harriet e May e Annmarie e Jean, ci fu Myra e Mary e Patty, ci fu Kathleen e Corine, e ognuna di loro si prese una cotta per quel ragazzo. Corine, la più bella, si sedeva al banco da lavoro nel retrobottega all'inizio di novembre, e lei e il mio fratellino scrivevano gli indirizzi sui cataloghi che il negozio faceva stampare e spediva a tutti i clienti per la stagione degli acquisti natalizi, quando mio padre era aperto sei sere la settimana e tutti sgobbavano come facchini. Se davi a mio fratello una scatola di buste, lui le contava più in fretta di tutti perché le sue dita erano agilissime e perché contava le buste cinque alla volta. Io ficcavo dentro la testa e infatti, cosa stava combinando? Era là che si faceva bello con le buste davanti a Corine. Quel ragazzo, come faceva volentieri tutto ciò che quadrava col fatto di essere il figlio fidato del gioielliere! Era l'elogio preferito di nostro padre: «Fidato». Negli anni nostro padre aveva venduto fedi nuziali agli irlandesi e ai tedeschi e agli slovacchi e agli italiani e ai polacchi di Elizabeth, per la maggior parte comuni lavoratori. La metà delle volte, fatta la vendita, ci invitavano, tutti noi della famiglia, al matrimonio. Alla gente riusciva simpatico: aveva il senso dell'umorismo e teneva i prezzi bassi e faceva credito a tutti, così noi ci andavamo, prima in chiesa, poi ai chiassosi festeggiamenti. C'era la Depressione, c'era la guerra, ma c'erano anche i matrimoni, c'erano le nostre commesse, c'erano i viaggi a Newark in autobus con centinaia di dollari di diamanti nelle buste ficcate nelle tasche dei nostri giacconi. Su ogni busta c'erano le istruzioni per il montatore o il misuratore scritte da nostro padre. C'era la cassaforte marca Mosley alta un metro e sessanta con le fessure per tutti i plateau che mettevamo via con cura ogni sera e toglievamo ogni mattina… E tutto questo formava il nocciolo della vita di quel bravo bambino che era mio fratello -. Gli occhi di Howie tornarono a posarsi sulla bara. - E ora? - chiese. - Forse sarebbe meglio fermarsi qui. Continuare, ricordare altre cose… Ma perché non ricordare? Cos'è un altro gallone di lacrime tra familiari e amici? Quando nostro padre morì mio fratello mi chiese se mi seccava che lui prendesse l'orologio di nostro padre. Era uno Hamilton, fabbricato a Lancaster, Pennsylvania, e secondo l'esperto, il boss, l'orologio migliore che questo paese avesse mai prodotto. Ogni volta che ne vendeva uno, nostro padre non mancava di assicurare al cliente che non aveva mai fatto un errore. «Vede, ne porto uno anch'io. Un orologio molto, molto apprezzato, lo Hamilton. A mio avviso», diceva, «il più importante orologio di fabbricazione americana, nessuno escluso». Settantanove e cinquanta, se ben ricordo. Tutti i prezzi degli articoli in vendita dovevano allora finire con cinquanta. Lo Hamilton aveva una grande reputazione. Era veramente un orologio di gran classe, mio padre amava il suo, e quando mio fratello disse che gli sarebbe piaciuto averlo, non avrei potuto essere più contento. Poteva prendere anche la lente da gioielliere e l'astuccio per i diamanti di nostro padre. Parlo del vecchio e logoro astuccio di pelle che nostro padre portava sempre con sé nella tasca della giacca ogni volta che usciva dal negozio per affari: con dentro le pinzette, e i minuscoli cacciavite e l'anelliera per misurare la grandezza di una pietra rotonda e i foglietti bianchi piegati per i diamanti sciolti. Quei bellissimi oggettini con i quali lavorava e ai quali era tanto affezionato, che teneva in mano e vicino al cuore, eppure decidemmo di seppellire con lui la lente e l'astuccio con tutto il suo contenuto. Teneva sempre la lente in una tasca e le sigarette nell'altra, così gli mettemmo la lente sotto il sudario. Ricordo che mio fratello disse: «A rigore di logica gliela dovremmo incastrare nell'orbita». Ecco cosa può farti il dolore. Ecco quanto eravamo abbattuti. Non sapevamo che altro fare. A ragione o a torto, ci sembrava che non ci fosse altro da fare. Perché quella roba non era solo sua, era lui... Per finire con lo Hamilton, il vecchio Hamilton di mio padre con la corona che giravi ogni mattina per caricarlo e che estraevi per girarla e regolare le sfere… Tranne quando andava a fare il bagno, mio fratello lo portava giorno e notte. Se l'è tolto per sempre solo quarantott'ore fa. Lo ha consegnato all'infermiera per farlo mettere in cassaforte mentre si sottoponeva all'intervento chirurgico che lo ha ucciso. Questa mattina, in macchina, mentre andavamo al cimitero, mia nipote Nancy mi ha mostrato che aveva fatto un altro buco nel cinturino, e ora è lei che porta lo Hamilton per vedere che ore sono.


Philip Roth ha vinto il Pulitzer Prize nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, e nel 2002 il più alto riconoscimento dell'American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal per la narrativa, assegnata in precedenza, tra gli altri, a John Dos Passos, William Faulkner e Saul Bellow. Ha vinto due volte il National Book Award, il PEN/Faulkner Award e il National Book Critics Circle Award. Nel 2005 Il complotto contro l'America ha ricevuto il premio della Society of American Historians per «il miglior romanzo storico di tematica americana» nel periodo 2003-2004. Nel Regno Unito il libro ha vinto il W.H. Smith Award per il miglior libro dell'anno. Philip Roth è così il primo scrittore a vincere due volte il premio, nell'arco dei suoi quarantasei anni di storia. Dal 2005 inoltre Philip Roth è diventato il terzo scrittore americano vivente la cui opera viene pubblicata in forma completa e definitiva dalla Library of America. L'ultimo degli otto volumi è previsto per il 2013.

Nel catalogo Einaudi: Lamento di Portnoy, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana, L'animale morente, Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, Chiacchiere di bottega, Zuckerman scatenato, Il complotto contro l'America, Il seno, La lezione di anatomia, L'orgia di Praga.

da Einaudi.it

PHILIP ROTH La vecchiaia è un massacro

In «Everyman» assistiamo al declino dell’«alter ego» dell’autore, fra esami clinici e ricadute.
Quando uscì Il lamento di Portnoy, eravamo nel 1969. In Italia la lotta studentesca si era saldata con quella sindacale. Le piazze delle nostre città erano piene di cortei. In letteratura, il Sessantotto aveva spaccato il fronte della Neoavanguardia. Per chi allora era giovane e amava la poesia e il romanzo, si preannunciavano i sei anni più plumbei del secolo.
Dall’America, Philip Roth, allora 36enne, ci mandava invece un grido di liberazione e di vitalità sconvolgente, un romanzo che descriveva private ossessioni sessuali con una freschezza, una autoironia, una cultura, una comicità che a qualcuno, a me per esempio, apparvero grandiose. Eravamo stati intossicati da romanzi-collages, metaromanzi, antiromanzi. Roth rilanciava il potere della scrittura e dell’invenzione, senza rinunciare all’idea della letteratura come grande forma di conoscenza. La psicoanalisi, una delle interpretazioni del mondo e dell’io che nel secolo scorso esercitò la sua ferrea egemonia, veniva usata, certo, ma anche irrisa e trasformata in pretesto per esilaranti scorribande nelle meno ovvie fantasie erotiche dell’uomo occidentale. Chi aveva letto e amato Saul Bellow, Bernard Malamud, Norman Mailer, non poteva che sentirsi a proprio agio con Roth, con la sua cifra irridente e funambolesca. C’era qualcosa di didattico, al fondo di quella esplosione di comicità quasi drammatica, c’era il «professore di desiderio» che iniziava a spiegare sesso e morale, matrimonio e tradimento, ossessione e felicità ai lettori.
Fu un successo clamoroso, ed è continuato. Oggi Roth è il romanziere più premiato d’America. Però riconoscere la voce di Alexander Portnoy nei suoi ultimi libri, nei romanzi brevi che viene pubblicando compulsivamente nei primi anni del nuovo secolo, non è facile. Lessi e apprezzai tempo fa L’animale morente. E oggi ho tra le mani, non senza qualche velato fastidio per una copertina nera e funebre, Everyman, appena uscito da Einaudi (pagg. 123, euro 13,50).
Roth e il suo alter ego, l’intellettuale della East Coast, di origine ebraica, democratico, tormentato dalla famiglia non meno che da una sessualità dirompente, è invecchiato. Si è reso conto che «la vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro». Ha coniugato l’età che passa con le malattie che sopravvengono. Ha sentito il corpo perdere colpi, girare a vuoto, ingolfarsi e spegnersi come il motore di una automobile.
Chi legge l’ultimo Roth vede la bellezza oltraggiata, il desiderio reso impotente, il corpo arrendersi a ogni sofferenza e al più irrevocabile declino. In Everyman le prime e le ultime pagine ci mettono di fronte a un cimitero ebraico in stato di semi-abbandono. Qui sono sepolti i genitori del protagonista, qui finisce lui stesso. E, in un andamento a spirale, ora lento ora vorticoso, noi veniamo a conoscenza della sua vita in famiglia, dei suoi rapporti con le tre mogli, con i tre figli, con gli amici e i colleghi di lavoro, con un fratello. Ma soprattutto veniamo a conoscenza del suo destino particolarmente crudele. Nato da genitori longevi, con un fratello che ha una invidiabile salute di ferro, il protagonista di Everyman viene assalito da continue malattie, in un crescendo di analisi, ospedali, interventi, convalescenze e ricadute. Niente ci viene risparmiato: infarti, ictus, prostate, occlusioni alla carotide.
L’ironia e la comicità sono scomparse. Resta il linguaggio, limpido, secco, aderente. Ma niente di più. Il sesso c’è sempre, ma senza nessuna gioia, e anzi travolto dal rimpianto. Leggere mi ha fatto venire l’ansia, il respiro corto. Mi sono ribellato a questa idea di vecchiaia. Mi è tornato alla mente Henry Miller ultra-ottantenne in sedia a rotelle che sfodera il suo talento più allegro per chiedere a Brenda Venus una prestazione sessuale ancora possibile, la passione finale di Ungaretti, amante sino all’ultimo respiro, la foto che mi inviò Ernst Jünger quasi centenario - la tengo da allora sul mio tavolo - che lo ritrae insieme a Borges, statuario nella sua cecità, davanti a due flutes di champagne.
La malattia assale il corpo. Lo contamina, lo disgrega. Ma se uno crede nello spirito, quello si salva, è incorruttibile. La vecchiaia per gli artisti può essere orrenda. Ricordo l’immensa tristezza con cui vidi un film come Ginger e Fred di Fellini, così intriso di solitudine e di disperazione. Per resistere, bisogna avere una idea eroica del proprio declino fisico, compensato da una energia spirituale piena sino alla fine di speranza e di eros. Roth non ce l’ha. Ma si è arreso con onestà e con stile.

Giuseppe Conte
il Giornale.it

CON PHLIP ROTH SENZA RITORNO

Il messo Morte avvisa "Ognuno" che dovrà partire, subito.

Quando era ragazzo nella bottega del padre piccolo gioielliere ebreo del New Jersey, il protagonista dell’ultimo romanzo di Philip Roth era affascinato dagli orologi. Crescendo, volle dedicarsi a un’attività che gli consentisse di creare qualcosa di concreto con le mani, e sentendosi portato alla pittura, ma essendo al contempo troppo prudente per fare l’artista, si dedicò alla grafica pubblicitaria. Il suo mito, derivato dal genitore, era stato lo Hamilton, «il più importante orologio di fabbricazione americana, nessuno escluso», prodotto a Lancaster, Pennsylvania: settantanove dollari e cinquanta, e mai un errore. Lo Hamilton, che non pretende di spiegare il tempo ma che orgogliosamente si pone l’obiettivo di misurarlo in modo impeccabile, è la perfetta metafora di questo libro allegorico fin dal titolo.Everyman, «ognuno», è naturalmente l’uomo qualunque che nell’antica moralità non si sa se inglese o olandese (i testi nelle due lingue, identici, sono coevi), celebre comunque nella versione tedesca «Jedermann» ogni anno in scena a Salisburgo, si sente annunciare da un messo a nome Morte che dovrà partire, subito, per un viaggio senza ritorno, e incontra grandi difficoltà a trovare chi sia disposto ad accompagnarlo. Bellezza, Forza, Ragione, lo abbandonano come Ricchezza, Parentela ecc.: solo Buone Opere resta al suo fianco fino all’ultimo, e con l’aiuto di Misericordia Divina riesce a ottenergli il perdono. Come in tutta l’arte medievale, l’insegnamento astratto è porto con un grande realismo dei particolari, e i dialoghi del protagonista con gli amici che si defilano sono vivacissimi.Altrettanto realistico è Philip Roth nel racconto del trapasso del suo personaggio, anche se, a differenza dell’autore anonimo, non ha una morale da offrire - può solo presentare i fatti con tutta l’obiettività possibile, nonché, beninteso, con una magistrale padronanza del proprio mezzo espressivo. La storia comincia col funerale del protagonista, del quale non apprenderemo mai il nome - che ci rendiamo conto di ciò solo a cose fatte è già una prova di grande virtuosismo dello scrittore, in inglese parlare con naturalezza di qualcuno o con qualcuno senza nominarlo è quasi impossibile -, funerale al quale partecipano elementi di famiglie delle quali costui ha fatto parte ma dalle quali si era estraniato. Dai brevi elogi funebri cominciamo ad apprendere su di lui dettagli che in seguito squarci di rievocazioni amplieranno: infanzia e adolescenza in un piccolo centro; tirocinio nel mestiere paterno; carriera professionale di qualche soddisfazione; confuse aspirazioni verso un miglior contatto con la natura sfogate solo in certe lunghe nuotate quotidiane; una vampata di sensualità intorno ai cinquant’anni - torridi accoppiamenti con una segretaria; tre mogli molto diverse tra loro, di cui l’ultima, una svedese troppo giovane e molto sexy, causa del fallimento del secondo matrimonio, si rivela disastrosamente inadeguata quando in anticipo sulle proprie aspettative, ossia avendo da poco passato i sessantacinque anni, il nostro eroe comincia ad avere problemi circolatori e quindi a subire frequenti interventi chirurgici.
UN UOMO QUALUNQUE
Nella parabola di questo uomo qualunque che si interroga sul perché gli stia accadendo quello che gli accade, parabola e uomo che per qualche verso possono richiamare un altro grande archetipo ebraico-americano, Morte di un commesso viaggiatore, Roth intesse molti simboli che agiscono sul lettore a livello subliminale. La parola Everyman, per esempio, è nell’insegna della bottega di gioielliere dove la storia ha inizio; e verso il finale, dopo aver casualmente citato la tragedia, il protagonista come Amleto, ossia l’Ognuno dei tempi moderni, entra in un cimitero e dialoga con un becchino che sta scavando la fossa e che gli fa volentieri la descrizione della propria attività. Qui campeggia la tipica, irresistibile attenzione di Roth per il fatto tecnico che già gli dettò pagine memorabili, vedi la lavorazione dei guanti nel suo capolavoro Pastorale americana. La presenza nelle ultime pagine di questo cordiale Caronte negro (che almeno a me richiama il finale di un’altra commedia di Miller, Giù dal Monte Morgan, dove tale funzione è svolta da un’infermiera di colore) introduce nell’apologo una nota di accettazione forse non lontana dalla serenità.
Masolino D'Amico, La Stampa

"EVERYMAN", la vita a perdere secondo Phlip Roth

C'è un passaggio del libro, più o meno alla fine che è forse il punto d'arrivo della tristezza senza illusioni dell'ultimo libro di Philip Roth, Everyman (tr. it. V. Montanari, Einaudi, 13,50 euro): "Mio Dio, che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che forza avevo dentro! Una volta ero completo: ero un essere umano". Un uomo invecchiato, sopravvissuto a sei o sette interventi chirurgici, tre matrimoni, due figli che non lo hanno mai perdonato. Imballato dal senso di colpa nel vedere la fatica che fa la figlia, separata con una bambina, a tirare avanti. Che ha sepolto padre e madre, una moglie da cui era separato, un'allieva promettente e piena di vita. Che ha vissuto a New York e poi è fuggito per paura degli attentati sentendosi ancora inadeguato per questa sua vocazione alla sopravvivenza e che importa se gli altri rimangono là? Un uomo che ha tradito la moglie e, scoperto, ha sposato l'amante perché sembrava la cosa giusta. Che vede il suo corpo andare in malora, i vecchi amici con i quali era partito alla conquista del mondo ingrassare e spegnersi, che si eccita per una ragazza che fa jogging sulla spiaggia ma non riesce a trovare le parole giuste per far dimenticare il suo aspetto. Un uomo che tira un bilancio. E nessun conto torna. Una figura familiare. Questo libro è vivamente sconsigliato a chi attraversa una fase bassa della vita.
Dario Olivero, Google news

Monday, February 05, 2007

LE SORPRENDENTI CRITICHE AL PAPA IN OCCASIONE DEL BARBARO ASSASSINIO DI UN POLIZIOTTO A CATANIA

La critica di Pippo Baudo, rivolta al Papa per non aver detto nulla all’Angelus di domenica scorsa sull’uccisione del povero poliziotto Filippo Raciti, richiama la recente uscita di Romano Prodi sulla sua intenzione di trovare un accordo con la Santa Sede sulle questioni dell'accanimento terapeutico. Immaginiamo per un attimo quale reazione queste prese di posizione avrebbero suscitato nell’opinione pubblica di nazioni come Francia, Germania, Inghilterra. Che ne dite di uno Chirac, o di un Sarkozy, che chiede al Papa di concordare una legge, o di intervenire sui disordini delle periferie parigine? Impensabile! In Italia avviene. Pippo Baudo è un ottimo professionista, ha personalità, ha carisma nel mondo della televisione e dello spettacolo, riscuote l’unanime affetto degli italiani; compreso il mio: l’ho visto all’opera, di presenza, al Festival Pucciniano di Torre del Lago alcuni anni fa: ne ho ammirato la scioltezza, la comunicativa, l’autorevolezza. Ha il carattere di una parte dei siciliani; l’impulsività e la reazione emotiva qualche volta gli giocano dei brutti tiri: non gli ha nemmeno sfiorato il cervello l’idea di non poter insegnare il mestiere ad un’autorità universale come quella del Papa, né l’ossequio implicito, pur nell’irritazione, contenuto nella sua lamentela, verso un potere politico ritenuto al di sopra o a fianco dello Stato. Però non si può dire che la sua sparata sul silenzio del Santo Padre riguardo al barbaro assassinio di Catania non interpreti il sentimento popolare. Gli italiani si aspettavano una parola dal Papa perché riconoscono in lui un’autorità che oltrepassa il campo prettamente spirituale di una religione. Si portano dietro il complesso di Porta Pia: non si perdonano il consenso accordato alle cannonate del 20 settembre. Il Papa per oltre un millennio, dopo la caduta di Roma, è stato l’unico vero monarca italiano, di un’Italia umiliata e disunita, in grado di confrontarsi con lo strapotere degli imperatori e dei capi degli stati nazionali europei. Tutti i popoli sono figli della propria storia. A distanza di centoquaranta anni il legame che univa il popolo al suo antico re e protettore è sempre vivo e riconoscibile. Il sistema democratico, dal dopoguerra in poi, ha esaltato questo legame. Il sentimento di rispetto e di sottomissione morale al Pontefice è maggioritario nel paese e attraversa tutte le forze politiche; Romano Prodi coscientemente e Pippo Baudo impulsivamente ne danno testimonianza.
Antonio Carollo

Friday, February 02, 2007

SULLA PENA DI MORTE

Sul settimanale online “Girodivite-Segnali dalle città invisibili”, edito a Catania, è apparso un interessante articolo sulla pena di morte di Thierry Avi.
Questo è il mio commento.
“Sono da sempre contro la pena di morte, per tutte quelle ragioni che ormai formano una letteratura sterminata. Vorrei continuare ad esserlo. Poi si viene a sapere di certi efferati asassinii, ad esempio come quelli di Erba. Assassinii plurimi perpetrati con lucida premeditata ferocia, per motivi futili o abietti. Allora tutti i discorsi sul cammino della civiltà attraverso i millenni, ecc. cominciano ad appannarsi, mentre si staglia nitida dinanzi alla nuda coscienza la figura di una dea implacabile e fredda: la Giustizia. Quattro vite umane, compresa quella di un bambino, nel nostro caso, la reclamano disperatamente, gridano giustizia. Allora i traguardi di secoli di evoluzione culturale e di crescita civile vacillano di fronte ad una verità incontrovertibile: il principio di giustizia non muta; la commisurazione della pena alla entità del crimine è ineludibile. Non c’entrano più l’umanità della pena e la redenzione del reo. Siamo a tu per tu con quella dea terribile che si erge decisa nello scenario spesso confuso della nostra coscienza. E’ sufficiente la privazione della libertà? Non credo, per come viene applicata dalla legislazione italiana.”
Sono seguite le seguenti osservazioni da parte del sig. Riccardo Ricciardini:
“Caro Antonio, tu dici che la galera non basta, che vuoi di più, che ritieni indispensabile la pena di morte. Il tutto partendo dall'affermazione che sei contrario. Ma se non lo sei perché cominci dicendo che invece sei contrario?”
La mia risposta:
“Caro Riccardo Ricciardini, hai ragione a far notare una certa contraddittorietà in quel che ho scritto. Di fronte all’orrore di una strage come quella di Erba la mia vecchia convinzione nel definire la pena di morte come delitto di Stato ha subito una forte scossa, ha vacillato. Ecco, con le mie parole ho voluto rendere (forse non riuscendovi) il senso di questo vacillamento. Ammetterai che qualche volta affiorano dalla coscienza delle domande angosciose: la soppressione di quattro vite umane è uno di questi momenti; in questo caso la domanda, oltre che angosciosa, è imperiosa. Quando parlo di dea fredda e implacabile mi riferisco alla giustizia e non alla morte o alla pena di morte; poi accenno al problema drammatico della commisurazione della pena all’entità del delitto (infatti il simbolo della giustizia è la bilancia). Alla fine compio un azzardo: in un caso come quello di Erba basta la privazione della libertà per come è praticata nel nostro sistema carcerario? Cioè nei modi, un po’ all’italiana, consueti per condannati colpevoli di illeciti di media odiosità. Per assassini così feroci non andrebbe pensato un regime carcerario più rigoroso? Posso pormi questa domanda? Grazie per le cortesi osservazioni. Saluti cordiali. Antonio Carollo”

CENTRALE, CHE FARE?

Nel suo bel blog “abicinema-versilia.splinder.com” il giornalista Umberto Guidi si domanda:”Centrale, come finirà?” Ovviamente non ho la risposta. Provo, da cattolico, con molti sensi di colpa verso una fede che m’inculcò da bambino mia madre, e da laico, per tutto ciò che riguarda la sfera pubblica, a venire a capo di un intrico che interessa da vicino la cittadinanza. La Chiesa è proprietaria dell’immobile. Con sensibilità e, direi, con senso civico in quanto consapevole della qualità del servizio svolto alla comunità, in quel locale, dalla famiglia Carmignani, per decenni si è come spogliata dei suoi diritti. Ha lasciato il godimento del bene alla collettività, percependo un fitto certamente non in linea con i prezzi di mercato. Adesso è venuta nella determinazione di impiegare quel capitale, nel frattempo cresciuto di valore a dismisura, in opere più conformi alla sua alta missione in seno alla comunità viareggina. Questa legittima e, oserei dire, doverosa pretesa, per un’istituzione dedita al fare, più che a vivere di rendita, si scontra con un interesse pubblico consolidato: il Centrale, per merito dei Carmignani, è uno dei luoghi di cultura di Viareggio, entrato nell’immaginario e nella storia dei suoi cittadini. Da qui l’esigenza obiettiva di salvaguardare il tradizionale uso di un bene che è divenuto patrimonio ideale della collettività. Il Comune in questa vicenda , a mio avviso, non può che assumere un ruolo di mediazione, senza atteggiamenti di parte, che offuscherebbero la sua natura di ente rappresentativo dell’intera cittadinanza; in particolare, secondo me, dovrebbe promuovere la costituzione di una public company (azionariato popolare) che provvedesse ad acquistare l’immobile del Centrale. E’ da scartare l’ipotesi di un acquisto diretto da parte del Comune: non si può accollare l’onere di un servizio a domanda individuale a tutti i contribuenti. Se la stragrande maggioranza dei cittadini ha a cuore le sorti del Centrale, diamole la possibilità di tradurre questo ‘interesse’ in un concreto intervento sottoscrivendo una quota di azioni della nuova società. In questo modo la Chiesa, col ricavato della vendita dell’immobile, sarebbe messa nelle condizioni di conseguire gli obiettivi prefissati di un migliore svolgimento della sua missione pastorale e la popolazione, almeno la parte più sensibile all’aspetto affettivo e culturale della vicenda, avrebbe la possibilità di dimostrare nei fatti la voglia di conservare per sé e per le prossime generazioni un luogo cult dove ritrovarsi per godere di spettacoli di qualità.
Antonio Carollo